Bisogna avere in sè il caos per partorire una stella che danzi. ( Nietzsche )



domenica 12 settembre 2010

Testo critico del Catalogo delle Opere - Italian - English - Russian



TOMMASO DIDIMO E LA MITOGRAFIA DELLA MATERIA

“il nome di materia abbraccia … tutto quello … che noi possiamo conoscere e concepire”.

G. Leopardi

Tommaso Didimo non ha atteso il 2010 per esplicitare la sua posizione di “anacronista informale”; se guardiamo attentamente, infatti, già nel Ratto di Ganimede (che fa bella mostra di sé nella copertina del nostro volumetto ), una tale poetica è presente a tutto tondo; procediamo però con ordine riassumendo rapidamente la storia di questo giovane artista.

Prima del 2007 la produzione del nostro si pone sotto il segno inequivocabile dell’Informale; immediatamente dopo Didimo si occupa di una “semifigurazione” che costituisce senz’altro il preludio dell’ “Anacronismo Informale”; dopo un’ ultima “eccitazione astratta” , l’artista, nel 2009, sbarca trionfalmente sul terreno della sua nuova poetica.

Perché “Anacronismo”, e perché “Informale” ? Partiamo dall’aggettivo; qualunque sia la posizione che Didimo va svolgendo, un punto fermo, una “stella polare”, rimane una materia convulsa, ricca, esuberante, volutamente desiderosa di non acquietarsi all’interno di una “forma compiuta”. Tutto questo sembrerebbe allontanare l’artista dalle forme conosciute dell’Anacronismo, se non fosse che Didimo ritiene possibile una declinazione “eretica” di un tale fenomeno artistico; ma su questo torneremo. Perché dunque “Anacronismo” ? La risposta è semplice; in Didimo non trova spazio alcuna forma di spontaneismo o di “primitivismo”. La pittura del nostro è “colta” e, in quanto tale, rientra perfettamente all’interno di una scelta anacronista. Il richiamo al mito, al museo, e alla letteratura sono, infatti, costanti in Didimo; si pensi al già citato Ratto di Ganimede; si guardi ancora al Dio-Demiurgo, all’ Elefante, al Costruttore ecc. Quale la funzione del mito nella pittura di Didimo ? La rilettura del mito serve all’artista per riproporre il legame fra la propria ricerca e la storia. Ne consegue necessariamente che, come per tutti gli anacronisti, anche per il nostro le bestie nere rimangono il Dadaismo e il Futurismo; ciò non significa sganciarsi del tutto dall’eredità delle Avanguardie Storiche. Il fatto stesso che l’artista si muova all’interno della “disintegrazione della forma”, dimostra che il suo sguardo non è rivolto all’Accademismo; su di un punto però Didimo si allontana decisamente dalle Prime Avanguardie; di queste rifiuta l’antireferenzialismo. Fermiamoci su questo punto.

All’antireferenzialismo Didimo oppone scandalosamente il referenzialismo; l’opera d’arte, infatti, pur reggendosi sulle proprie gambe, rimanda a ciò che sta fuori dai suoi confini. Si pensi all’Elefante, un quadro volutamente ispirato ad un romanzo di Saramago; si prenda in considerazione il Dio-Demiurgo che nasce da una meditazione su Marcione e sulla teologia gnostica del grande eresiarca. Il referenzialismo non fa però cadere Didimo all’interno delle sabbie mobili dell’illustrazione; l’evocazione del mito e della letteratura spingono il pittore a rileggere a suo modo tutti i racconti che incontra e a farli ricadere all’interno del proprio immaginario. Prendiamo il già citato Ratto di Ganimede; l’artista avrebbe potuto accostarsi a Correggio, ed invece prende un’altra strada, quella del terrore. Tutto il quadro, ruota intorno all’occhio stravolto dell’efebo che si vede trascinato via dal rapace e che non sospetta ancora il suo meraviglioso destino di immortalità e di felicità. Perché, insistiamo ancora, il mito è così centrale in Didimo?

Per il pittore il mito è il sigillo dell’Alterità; non è solo Duchamp a costituire la bestia nera del nostro; all’autore della Ruota di bicicletta si accosta anche la Pop Art e la sua idea dell’arte risolta sul terreno della deiezione quotidiana. Da buon anacronista, l’artista crede invece nel destino verticale dell’arte; destino esaltato eloquentemente dalla sontuosità della pittura e dalla scelta di un cromatismo denso e vibrante. Tutto ciò serve per esaltare l’irriducibilità dell’arte alla realtà, soprattutto alla realtà nella sua versione più volgare ed abbandonata. Il verticalismo non getta però Didimo fra le braccia della trascendenza, bensì vede la sua ricerca ancorata ad una precisa filosofia materialista; torniamo così all’aggettivo “Informale”.

Il “dio” di Didimo è la materia, una materia figlia indiscussa della Pittura d’Azione e dell’Informalismo Storico. Ne consegue che la materia coltiva la più sfrenata libertà; la libertà implica poi che la materia si mantiene all’interno di una “disorganizzazione organizzata”, coltiva cioè il progetto di rimanere in uno stato di caos dal quale però emergono riconoscibili e prepotenti personaggi ed eventi. Questi, chiunque essi siano si presentano come escrescenze della materia stessa; logicamente questa, se deve evocare delle storie, non può rimanere all’interno di un assoluto indistinto, ma deve farsi riconoscere. Ecco dunque, fra gli altri, il caso di Turpissima Bestia; che fa Didimo? Strappa allo Schiavo Morente di Michelangelo la sua scimmia e la mette al centro del proprio lavoro. In questo modo il nostro esibisce tutta la sua ostilità nei confronti di quell’idealismo che parte da Platone per arrivare all’ascetismo di Mondrian e al riduzionismo masochista delle Neoavanguardie. Concludiamo la nostra analisi sottolineando le implicazioni filosofiche della ricerca dell’artista.

La materia dunque, risolve in sé l’essere; è per questo che in Didimo non si affaccia Dio, bensì appaiono gli dei o comunque dei personaggi favolosi intrinsecamente pagani. La “morte di Dio” non significa però la messa a tacere dell’immaginario e della fabulazione; al contrario. Se, come afferma Albert Camus, il mondo è quello che è, l’uomo è però una creatura che desidera irrefrenabilmente che il mondo non sia quello che è. Per il nostro, un tale desiderio trova il suo sbocco esaltante nella pittura; il delirio della mente non risulta poi scisso dallo “sporcarsi le mani” a cui il pittore è destinato. Per l’ennesima volta è a Duchamp e alla sua riduzione dell’arte a concetto, che vengono rivolti gli strali polemici del giovane autore; la pittura ha poi esaurito la sua odissea ? Forse; a Didimo però non interessa il futuro; qui ed ora è la pittura che lo possiede totalmente. Accanto a Duchamp, come oggetto polemico, l’artista si sceglie anche Giulio Carlo Argan; non è vero infatti che lo choc percettivo dell’Informale non lascia conseguenze e si disperde; se questo è vero, ci pensa l’Anacronismo a bloccare una tale diaspora. Argan conclude che, con l’Informale, l’immagine sulla tela coincide con l’immediato precipitato della vita interiore. Tommaso Didimo è d’accordo; ricorda e ribadisce però che un tale “precipitato” si organizza facendo appello (ancora e sempre) a tutta la ricchezza della storia e del museo, la grande “banca dati” a cui l’artista fa riferimento per conquistare se stesso e, contemporaneamente per fare entrare il fruitore all’interno di quel cerchio dell’arte che il nostro intende come assolutamente vero nella sua splendente e carnale menzogna.

Robertomaria Siena

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