Bisogna avere in sè il caos per partorire una stella che danzi. ( Nietzsche )



martedì 31 marzo 2009

"Tommaso Didimo e la celebrazione della materia" , testo del critico Prof. Robertomaria Siena

TOMMASO DIDIMO E LA CELEBRAZIONE DELLA MATERIA

La scelta pittorica del giovane Tommaso Didimo è netta e inequivocabile; si tratta di una scelta consapevolmente informale. Immediatamente dopo Didimo rifiuta la lettura arganiana dell’Informale; come sappiamo, il giudizio dello studioso è severo; con l’Informale, sostiene Argan ci troveremmo dinanzi ad un’opera intesa come assoluta presenza priva di memoria e di avvenire. Parla poi di “scariche emotive” che non danno luogo a nessuna fissazione di valori e che non sono in grado di costruire un patrimonio di immagini. Per Didimo, praticare l’informalismo oggi significa, al contrario, mettere in campo valori chiari e precisi. Quali? Andiamo con ordine.

Il giovane artista sostiene che Argan ha ragione quando afferma che le differenti correnti dell’Informale conoscono un aspetto comune: l’emergenza e l’urgenza della materia. Ora, come è più che evidente, la materia si colloca al centro esatto degli interessi pittorici del nostro; il quadro è, infatti, il luogo dove la materia, libera da steccati e da gabbie, ha la possibilità di agitarsi, di dilagare, di esibirsi, di complicarsi mostrando infinite e multiformi significazioni. L’informalismo di Didimo si presenta come una mera accozzaglia di “scariche emotive”? Niente affatto; innanzitutto cogliamo il valore culturale generale della fatica pittorica del giovane autore. Dichiararsi “materialista” agli inizi del Ventunesimo Secolo significa, infatti, opporsi a Platone e ai diversi fondamentalismi che sempre Platone mantengono come loro stella polare. Per Platone e per i fondamentalismi, la bestia nera è e rimane il soggetto nella sua rivendicazione di piacere, di felicità e di libertà; la pittura di Didimo invece proprio a questi valori si appella con grande forza. Ora tutto questo accade all’interno di una storia che è già tale, nonostante la giovane età dell’artista.

Prima del 2007 la produzione del nostro si pone sotto il segno dell’astrazione; immediatamente dopo, sicuramente grazie alla fascinazione del mito che subisce da questo momento in poi, Didimo approda alla “semifigurazione”. Da qui Minosse, appunto del 2007, e il Leviatano. Nel 2008 il nostro decide che il mito può essere designato dall’astrazione più conseguente; da qui La fucina di Vulcano, un quadro potente e sontuoso. Seguono, sempre nel 2008, Dioniso e Afrodite; questi ultimi due lavori vedono la perfetta congiunzione fra l’informalismo più esaltante ed il mito. Non a caso appare Dioniso, il dio che Didimo legge non solo come patrono della materia, ma anche come nume del “fuoco”. Afrodite viene letta in chiave lucreziana, come hominum divumque voluptas; da qui le forme che si aprono a “coppa” in un tripudio di colori che altro non sono se non la carne che si illumina e che si agita mossa, appunto, da quel desiderio che è l’essenza abissale della dea e del mondo.

Chiediamoci ora il perché dell’irruzione del mito nella pittura di Didimo. Si tratta del fatto che il nostro è il fratello di Giorgio Dante, un pittore anacronista immerso integralmente nel mito? Per una minima parte è così, ma solo per una minima parte; in realtà l’artista evoca il mito perché questo si occupa della passione e, come abbiamo visto, la passione si colloca al centro di una materia a cui sono sconosciute repressione e moderazione. Detto questo, rimane un ultimo argomento da affrontare, quello fondamentale della bellezza. Già l’Informale Storico, come ha sempre ripetuto Argan, celebra la bellezza; Didimo ritiene anche lui che non possa darsi un distacco dell’arte dalla bellezza. Sta qui la precisa e puntuale polemica che il giovane conduce nei confronti di Dada, della Pop Art e delle Neoavanguardie. Ritiene, infatti, che l’espulsione della bellezza dall’arte costituisca un impoverimento dell’uomo, una debilitazione che va combattuta e fermata. Ovviamente la bellezza è leggibile in diverse chiavi; la scelta informale allontana Didimo da ogni forma di staticità e di concettualismo. Tutto questo accade perché, al fondo della filosofia del giovane pittore, si staglia, come dicevamo, l’antiplatonismo; la materia, infatti, non è un disvalore, bensì “il valore primario”. Di seguito la materia non è solo il corpo del mondo, ma siamo anche noi rivelati a noi stessi come corpo; la pittura di Tommaso Didimo così fa proprio il punto di vista della filosofia contemporanea. Dice Umberto Galimberti, infatti, che ogni atto rivela la mia presenza corporea e che il corpo è la modalità del mio essere-nel-mondo. Un tale fatto si presenta all’artista come sicura fonte di entusiasmo; un entusiasmo che lo porta, insieme con umiltà e decisione, a scegliere una strada diversa da quella di Burri. Il grande maestro, come sappiamo, lavora sulla materia, lavora con i sacchi rattoppati, con gli stracci sordidi, con i legni bruciacchiati; ora, al di là della “geometria segreta” che sta alla base della disperazione burriana, rimane il fatto che sempre di materie deiette stiamo parlando. La materia prediletta da Didimo, al contrario, è spudoratamente ricca e lussuosa; questo accade perché l’artista teme che la strada aperta da Burri possa condurre all’adozione della “strategia dell’impurità”, e al conseguente abbandono della pittura. In lui l’entusiasmo per la materia fa palesemente corpo unico con la fede nella pittura, quella pittura che considera e vive come un imprescindibile ed insuperabile destino.


Prof. Robertomaria Siena

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